domenica 29 giugno 2014

mercoledì 13 marzo 2013

Papa Francesco, le sue parole dal balcone




«Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo. Ma siamo qui... Vi ringrazio dell’accoglienza, alla comunità diocesana di Roma, al suo Vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca». Quindi ha recitato il Padre nostro, l’Ave Maria e il Gloria. «E adesso - ha proseguito - incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro, preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo - mi aiuterà il mio cardinale vicario qui presente - sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa sempre bella città... Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me». «Adesso darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà», ha proseguito, impartendo la benedizione in latino e concedendo l’indulgenza plenaria. «Grazie tante dell’accoglienza. Pregate per me e a presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo». ] «Fratelli e sorelle buonasera. Voi sapete che il dovere del Conclave è di dare un Vescovo a Roma. Sembra che i miei fratelli cardinali sono andati a prenderlo quasi alla fine del mondo. Ma siamo qui... Vi ringrazio dell'accoglienza, alla comunità diocesana di Roma, al suo Vescovo, grazie. E prima di tutto vorrei fare una preghiera per il nostro Vescovo emerito Benedetto XVI. Preghiamo tutti insieme per lui, perché il Signore lo benedica e la Madonna lo custodisca».

Quindi ha recitato il Padre nostro, l'Ave Maria e il Gloria.
«E adesso - ha proseguito - incominciamo questo cammino, Vescovo e popolo, questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità a tutte le chiese. Un cammino di fratellanza, di amore e di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi, l'uno per l'altro, preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza. Vi auguro che questo cammino di Chiesa che oggi incominciamo - mi aiuterà il mio cardinale vicario qui presente - sia fruttuoso per la evangelizzazione di questa sempre bella città... Adesso vorrei dare la benedizione, ma prima vi chiedo un favore. Prima che il Vescovo benedica il popolo io vi chiedo che voi pregate il Signore perché mi benedica: la preghiera del popolo chiedendo la benedizione per il suo Vescovo. Facciamo in silenzio questa preghiera di voi su di me». «Adesso darò la benedizione a voi e a tutto il mondo, a tutti gli uomini e donne di buona volontà», ha proseguito, impartendo la benedizione in latino e concedendo l'indulgenza plenaria. «Grazie tante dell'accoglienza. Pregate per me e a presto, ci vediamo presto. Domani voglio andare a pregare la Madonna perché custodisca tutta Roma. Buona notte e buon riposo».
Fonte: Corriere della Sera 13.03.13

lunedì 7 maggio 2012

Il mondo drogato della vita a credito



di ZYGMUNT BAUMAN

Un quotidiano britannico ha pubblicato la storia di un cinquantunenne che ha accumulato un debito di 58mila sterline su 14 carte di credito e finanziamenti vari. Con l'impennata dei costi del carburante, dell'elettricità e del gas non riusciva più a pagare gli interessi. 

Deplorando, col senno di poi, la sconsideratezza che lo ha gettato in questa situazione spiacevole se la prendeva con chi gli aveva prestato il denaro: parte della colpa è anche loro, diceva, perché rendono terribilmente facile indebitarsi. In un altro articolo pubblicato lo stesso giorno, una coppia spiegava di aver dovuto drasticamente ridurre il bilancio familiare, ma esprimeva anche preoccupazione per la figlia, una ragazza giovane già pesantemente indebitata. Ogni volta che esaurisce il plafond della carta di credito subito le viene offerto in prestito altro denaro. A giudizio dei genitori le banche che incoraggiano i giovani a prendere prestiti per acquistare, e poi altri prestiti per pagare gli interessi, sono corresponsabili delle sventure della figlia. 

C'era un vecchio aneddoto su due agenti di commercio che giravano l'Africa per conto dei rispettivi calzaturifici. Il primo inviò in ditta questo messaggio: inutile spedire scarpe , qui tutti vanno scalzi. Il secondo scrisse: richiedo spedizione immediata di due milioni di paia di scarpe, tutti qui vanno scalzi. La storiella mirava ad esaltare l'intuito imprenditoriale aggressivo, criticando la filosofia prevalente all'epoca secondo cui il commercio rispondeva ai bisogni esistenti e l'offerta seguiva l'andamento della domanda. Nel giro di qualche decennio la filosofia imprenditoriale si è completamente capovolta. Gli agenti di commercio che la pensano come il primo rappresentante sono rarissimi, se ancora esistono. La filosofia imprenditoriale vigente ribadisce che il commercio ha l'obiettivo di impedire che si soddisfino i bisogni, deve creare altri bisogni che esigano di essere soddisfatti e identifica il compito dell'offerta col creare domanda. Questa tesi si applica a qualsiasi prodotto, venga esso dalle fabbriche o dalle società finanziarie. La suddetta filosofia imprenditoriale si applica anche ai prestiti: l'offerta di un prestito deve creare e ingigantire il bisogno di indebitarsi. 

L'introduzione delle carte di credito è stata un segno premonitore. Le carte di credito erano state lanciate sul mercato con uno slogan rivelatore e straordinariamente seducente: "Perché aspettare per avere quello che vuoi?". Desideri una cosa ma non hai guadagnato abbastanza per pagarla? Beh, ai vecchi tempi, ora fortunatamente andati, si doveva procrastinare l'appagamento dei propri desideri: stringere la cinghia, negarsi altri diletti, essere prudenti e parchi nelle spese e depositare il denaro così racimolato su un libretto di risparmio nella speranza di riuscire, con la cura e la pazienza necessarie, ad accumularne abbastanza per poter realizzare i propri sogni. Grazie a Dio e al buon cuore delle banche non è più così! Con la carta di credito si può invertire l'ordine: prendi subito, paghi dopo. La carta di credito rende liberi di appagare i desideri a propria discrezione: avere le cose nel momento in cui le vuoi, non quando te le sei guadagnate e te le puoi permettere. 

Questa era la promessa, ma sotto c'era anche una nota in caratteri minuscoli, difficile da decifrare anche se facile da intuire in un momento di riflessione: quel perenne "dopo" ad un certo punto si trasformerà in "subito" e bisognerà ripagare il prestito. Il pagamento dei prestiti contratti per non aspettare e soddisfare subito i vecchi desideri, renderà difficilissimo soddisfarne di nuovi... Non pensare al "dopo", significò , come sempre, guai in vista. Si può smettere di pensare al futuro solo a proprio rischio e pericolo. Sicuramente il conto sarà salato. Più presto che tardi arriva la consapevolezza che allo sgradevole differimento dell'appagamento si è sostituito un breve differimento della vera terribile punizione per l'essere stati precipitosi. Ci si può togliere uno sfizio quando si vuole, ma anticipare il diletto non lo renderà più abbordabile... In ultima analisi, sarà differita solo la presa di coscienza della triste realtà. 

Per quanto nociva e dolorosa, questa non è l'unica nota in caratteri minuscoli sotto la promessa del "prendi subito, paga dopo". Per evitare di limitare ad un solo prestatore il profitto derivante dalle carte di credito e dai prestiti facili, il debito contratto doveva essere (e così è stato) trasformato in un bene che procuri profitto permanente. Non riesci a ripagare il tuo debito? Non preoccuparti: a differenza degli avidi prestatori di denaro vecchio stile, ansiosi di veder ripagate le somme prestate entro termini ben precisi e non differibili, noi prestatori di denaro moderni e disponibili non ti chiediamo indietro i nostri soldi, bensì ci offriamo di prestartene altri per pagare il vecchio debito e avere un po' di disponibilità (cioè di debito) in più per toglierti nuovi sfizi. Siamo le banche che dicono "sì", le banche disponibili, le banche col sorriso, come diceva una delle pubblicità più geniali. 

Quello che nessuno spot diceva apertamente, lasciando la verità ai cupi presagi del debitore, era che le banche prestatrici in realtà non volevano che i debitori pagassero i debiti. Se lo avessero fatto entro i termini non sarebbero stati più in debito, ma sono proprio i loro debiti (il relativo interesse mensile) che i moderni, disponibili (e geniali) prestatori di denaro hanno deciso, con successo, di riciclare come fonte prima del loro profitto costante, assicurato (e si spera garantito). I clienti che restituiscono puntualmente il denaro preso in prestito sono l'incubo dei prestatori. Le persone che si rifiutano di spendere denaro che non abbiano già guadagnato e si astengono dal prenderlo in prestito, non sono di alcuna utilità ai prestatori - perché sono quelli che (spinti dalla prudenza o da un senso antiquato dell'onore) si affrettano a ripagare i propri debiti alle scadenze. Una delle maggiori società di carte di credito presenti in Gran Bretagna ha suscitato pubbliche proteste (che certo avranno vita breve) nel momento in cui ha scoperto il suo gioco rifiutando il rinnovo delle carte ai clienti che pagavano ogni mese il loro intero debito, senza quindi incorrere in sanzioni finanziarie. 

L'odierna stretta creditizia non è risultato del fallimento delle banche. Al contrario, è il frutto del tutto prevedibile, anche se nel complesso inatteso, del loro straordinario successo: successo nel trasformare una enorme maggioranza di uomini e donne, vecchi e giovani, in una genìa di debitori. Perenni debitori, perché si è fatto sì che lo status di debitore si auto-perpetui e si continuino a offrire nuovi debiti come unico modo realistico per salvarsi da quelli già contratti. Entrare in questa condizione, ultimamente, è diventato facile quanto mai prima nella storia dell'uomo: uscirne non è mai stato così difficile. Tutti coloro che erano nelle condizioni di ricevere un prestito, e milioni di altri che non potevano e non dovevano essere allettati a chiederlo, sono già stati ammaliati e sedotti a indebitarsi. E proprio come la scomparsa di chi va a piedi nudi è un guaio per l'industria calzaturiera, così la scomparsa delle persone senza debiti è un disastro per l'industria dei prestiti. Quanto predetto da Rosa Luxemburg si è nuovamente avverato: comportandosi come un serpente che si mangia la coda il capitalismo è nuovamente arrivato pericolosamente vicino al suicidio involontario, riuscendo ad esaurire la scorta di nuove terre vergini da sfruttare... 

Negli Usa il debito medio delle famiglie è cresciuto negli ultimi otto anni - anni di apparente prosperità senza precedenti- del 22 per cento. L'ammontare totale dei prestiti su carta di credito non pagati è cresciuto del 15%. E , cosa forse più minacciosa, il debito complessivo degli studenti universitari, la futura élite politica, economica e spirituale della nazione, è raddoppiato. L'insegnamento dell'arte di "vivere indebitati", per sempre, è ormai inserito nei programmi scolastici nazionali... Si è arrivati a una situazione molto simile in Gran Bretagna. Il resto dei Paesi europei segue a non grande distacco. Il pianeta bancario è a corto di terre vergini avendo già sconsideratamente dedicato allo sfruttamento vaste estensioni di terreno sterile. 

La reazione finora, per quanto possa apparire imponente e addirittura rivoluzionaria per come emerge dai titoli dei media e dalle dichiarazioni dei politici, è stata la solita : il tentativo di ricapitalizzare i prestatori di denaro e di rendere i loro debitori nuovamente in grado di ricevere credito, così il business di prestare e prendere in prestito, dell'indebitarsi e mantenersi indebitato, potrebbe tornare alla "normalità". Il welfare state per i ricchi (che a differenza del suo omonimo per i poveri non è mai stato messo fuori servizio) è stato riportato in vetrina dopo essere stato temporaneamente relegato nel retrobottega per evitare invidiosi paragoni. Lo Stato ha nuovamente flesso in pubblico muscoli a lungo rimasti inattivi, stavolta al fine di proseguire il gioco che rende questo esercizio ingrato ma, abominevole a dirsi, inevitabile; un gioco che stranamente non sopporta che lo Stato fletta i muscoli, ma non può sopravvivere senza. 

Quello che si dimentica allegramente (e stoltamente) in quest'occasione è che l'uomo soffre a seconda di come vive. Le radici del dolore oggi lamentato, al pari delle radici di ogni male sociale, sono profondamente insite nel nostro modo di vivere: dipendono dalla nostra abitudine accuratamente coltivata e ormai profondamente radicata di ricorrere al credito al consumo ogni volta che si affronta un problema o si deve superare una difficoltà. Vivere a credito dà dipendenza come poche altre droghe, e decenni di abbondante disponibilità di una droga non possono che portare a uno shock e a un trauma quando la disponibilità cessa. Oggi ci viene proposta una via d'uscita apparentemente semplice dallo shock che affligge sia i tossicodipendenti che gli spacciatori: riprendere (con auspicabile regolarità) la fornitura di droga. 

Andare alle radici del problema non significa risolverlo all'istante. È però l'unica soluzione che possa rivelarsi adeguata all'enormità del problema e a sopravvivere alle intense, seppur relativamente brevi , sofferenze delle crisi di astinenza. 
(Traduzione di Emilia Benghi) 
da La Repubblica 8 ottobre 2008

C'era una volta il Paese dei sindaci



di Ilvo Diamanti

Oggi sono chiamati a votare oltre 9 milioni di elettori, intorno al 20% del totale. Per eleggere i sindaci di quasi mille comuni, di cui 157 sopra i 15 mila abitanti, compresi 26 capoluoghi di provincia. Potrebbe apparire una consultazione minore. Ma in Italia nessuna elezione lo è.

Perché tutte le elezioni - e soprattutto quelle comunali - servono a cogliere e a dare segnali circa il cambiamento sociale e politico. Una considerazione tanto più vera per questa scadenza. La prima consultazione dopo vent'anni di berlusconismo. Mentre il sistema partitico e il rapporto tra politica e società appaiono logori. Marcati da fratture molteplici.

Da questo appuntamento elettorale ci attendiamo indicazioni su quattro diverse questioni.

1. La prima fa riferimento alla tradizionale divisione tra partiti e schieramenti, emersa nella Seconda Repubblica. Centrodestra e centrosinistra, con il Centro, a sua volta, oscillante fra i due poli. All'elezione del 2007, quando vennero eletti gran parte dei sindaci e dei consigli oggi in scadenza, il centrosinistra subì un pesante arretramento. Nei comuni (superiori a 15 mila abitanti) dove si votava allora, governava in 80 comuni, venti più del centrodestra. Oggi, nell'Italia al voto, il rapporto è rovesciato. Il centrodestra amministra 95 comuni (di cui 12 leghisti), il centrosinistra 53. Da qui in poi, faccio riferimento ai dati dell'Osservatorio Elettorale LaPolis-Demos. ll risultato del 2007 annunciò - e accelerò - il profondo mutamento del clima d'opinione, che avrebbe condotto al governo Berlusconi e la Lega, un anno dopo. Non a caso, dopo quelle amministrative, sorge il Pd di Veltroni. Il progetto del partito unico o, comunque, dominante, del centrosinistra. Imitato dal Pdl di Berlusconi, a centrodestra.

Quella stagione è finita. Da un lato, il centrodestra non è più maggioranza. Lo dicono i sondaggi. Ma, soprattutto, lo hanno dimostrato le elezioni amministrative di un anno fa. Quando il centrosinistra ha vinto nelle principali città dove si è votato. Fra le altre: Milano, Napoli e Cagliari. Dove sono stati eletti sindaci espressi da forze diverse dal Pd. Da ciò la spinta, moltiplicata dai referendum, che ha contribuito alla crisi della maggioranza di centrodestra e alla caduta del governo Berlusconi. Alla fine del berlusconismo, in altri termini. E alla conseguente debolezza del Pdl ma anche del Pd. Incapaci di imporsi come soggetti dominanti dei due schieramenti.

2. Oggi, peraltro, insieme ai principali partiti, anche le alleanze di prima sono divenute fragili. Scardinate dal "montismo", che ha gestito il post-berlusconismo. Sostenuto da una maggioranza di governo che associa i tradizionali oppositori, Pd e Pdl, insieme al Terzo polo. Mentre gli alleati di prima oggi stanno all'opposizione. Ciò si riflette sulle coalizioni che si presentano nei comuni. Ma solo in parte. La Lega, coerentemente con l'attuale (op)posizione, si presenta da sola quasi dovunque. Ma gli esempi di "Grande coalizione" sono solo un paio. Mentre il Pdl appare disorientato. Si presenta da solo, talora insieme all'Udc. Spesso diviso in diverse liste. L'Udc stessa, peraltro, si presenta autonomamente in circa 70 Comuni, mentre nei rimanenti si divide equamente fra il Pd o il Pdl. Il Pd, in circa 90 Comuni, riunisce tutte le forze di centrosinistra nella stessa coalizione - allargata in 20 casi all'Udc. Ma in molti Comuni si presenta diviso da almeno uno degli altri partiti di sinistra. Come a Palermo. Ma in altri 20 Comuni è alleato all'Udc, in competizione con Sel e/o l'Idv. Questa consultazione diventa, quindi, un'occasione per testare la tenuta dei partiti, ma anche delle coalizioni prevalenti. O, forse, per avere conferma della frammentazione partitica e della scomposizione delle alleanze, in atto.

3. La terza questione riguarda la frattura fra partiti e società, riassunta, un po' semplicisticamente, nella formula dell'antipolitica. È sottolineata dal moltiplicarsi delle "liste civiche", utilizzate, spesso, per mascherare i partiti, oltre che per proporre formazioni effettivamente autonome e locali. Non-partitiche. Nei Comuni con oltre 15 mila abitanti al voto, infatti, si presentano 2.636 liste - in media, quasi 17 per Comune - e 991 candidati sindaci - oltre sei per Comune. In queste elezioni amministrative scende in campo anche il Movimento 5 Stelle, di Beppe Grillo. Soggetto politico che ha coltivato la protesta antipartitica. Accreditato, dai sondaggi, di un grande risultato, si presenta in poco meno della metà dei Comuni maggiori e in 20 dei 26 capoluoghi. Quasi dovunque corre da solo. Contro tutti.

Ma questa consultazione costituisce una verifica particolarmente importante anche per la Lega. Esprime i sindaci di 12 Comuni con oltre 15 mila abitanti - di molti altri più piccoli - tra quelli dove si vota. Era il principale imprenditore politico del malessere contro lo Stato centrale e contro il sistema dei partiti. Fino a ieri. Occorrerà verificare se gli scandali e le divisioni interne degli ultimi mesi ne abbiano intaccato la credibilità e il radicamento.

4. L'ultima questione riguarda i protagonisti della consultazione. I sindaci. Quasi vent'anni fa, nel 1993, la legge sull'elezione diretta li rese artefici della stagione seguente alla caduta della Prima Repubblica. Interpreti della domanda di autonomia del territorio e della società. Capaci di compensare il crollo di legittimità dello Stato e del sistema politica presso i cittadini. Vent'anni dopo, però, essi si ritrovano soli. Perlopiù sopportati - quanto poco "supportati" - dai partiti. Che li hanno sempre considerati un ostacolo alle proprie logiche oligarchiche e centraliste. I sindaci. Dagli anni Novanta in poi, hanno rivendicato e ottenuto competenze e responsabilità. Ma dispongono di risorse scarse e di poteri inadeguati. Oltre che in costante declino. Berlusconi e la Lega, negli ultimi dieci anni, hanno esibito un "federalismo a parole". Il governo tecnico, legittimato - e spinto - dall'emergenza e dai mercati, non finge neppure di valorizzare il ruolo delle autonomie locali e dei sindaci. Ai quali viene, invece, chiesto di trasformarsi da "attori" a "esattori". Ammortizzatori del dissenso. Addetti a riscuotere tasse impopolari - e a ricucire il rapporto con la società - per conto terzi. Con l'esito di vedersi delegittimati: dallo Stato e dai cittadini.

Da ciò il duplice rischio. Che questa elezione non indichi solo una svolta politica o antipolitica. Ma segni - anche e soprattutto - la fine della "Repubblica dei Sindaci".

da La Repubblica 06 maggio 2012

martedì 27 settembre 2011

Il falso testamento


di Raniero La Valle

È un pessimo segno dei tempi il fatto che il Parlamento, non potendo occuparsi del bene del Paese rimasto in poche sporchissime mani, si sia incattivito nell’impresa di dettare norme su come morire. Costituzionalmente disabile, per come è stato eletto, a provvedere alla vita, si dedica alla morte. Il Parlamento lo fa non solo dettando per legge i termini della “morte naturale”, ma intromettendosi in quella sfera personalissima che una volta era il cosiddetto testamento spirituale, nel quale ciascuno pensava se stesso nel momento futuro della morte, per vedere quale fosse l’ultima parola da lasciare ai vivi. Di questa parola il legislatore si appropria, del testamento fa carte false, o anche carta straccia; si chiama testamento biologico, ma in realtà è l’atto di fede in cui una persona dice come crede nella vita: se crede che la vita non stia tutta nella vita fisica, sicché se si lascia questa non è la vita intera che si lascia; se crede alla distinzione tra nuda vita, vegetale o animale
che sia, e una vita rivestita dell’umano, e magari umanizzata dallo spirito divino; oppure crede che senza ventilazione non c’è nessuna vita.

È triste e pericolosa una società nella quale si sente il bisogno di fare una legge sulla morte, soprattutto per proibire una buona morte, che in greco si dice eutanasia. Vuol dire che siamo arrivati a un grado di tale sospetto reciproco, di tale sfiducia nei parenti, nei medici, negli infermieri, nei giudici come se tutti fossero lì pronti a toglierci la vita, che c’è bisogno di una legge, di una ferrea norma penale per vietarglielo. Una volta, quando si moriva in casa, e quando le macchine non intercettavano quello che si chiamava “il ritorno alla casa del Padre”, ciò sarebbe stato inconcepibile. Ma ora abbiamo a che fare con un legislatore che pretende di estendere il suo controllo su tutte le pieghe della realtà, e con una maggioranza parlamentare che ha patito come uno scacco, come un’intollerabile usurpazione il fatto che la povera Eluana Englaro morisse un attimo prima che un suo sovrano decreto glielo impedisse. Vuole una rivincita su tutte le Eluane Englaro del futuro.

La Chiesa farebbe bene a non mettercisi in mezzo. Per molte ragioni. La più mondana è che se la Chiesa detta alla politica l’agenda etica, una politica cattolica, fatta o ispirata dai cattolici, non è più possibile: è possibile solo una politica ecclesiastica eseguita magari da miscredenti e corrotti per tutt’altri motivi. Fino a quando la Chiesa dei vertici si assume la titolarità delle scelte politiche che giudica per lei rilevanti, la Chiesa della base, cioè i fedeli laici non possono farci niente, ed è inutile auspicare una nuova generazione di politici cattolici e magari proporre ad attempati pionieri di una nuova DC un codice della Segreteria di Stato arcaicamente chiamandolo codice di Camaldoli.

La ragione più ecclesiale è che il declino della Chiesa in Italia, dopo gli anni del Concilio, è cominciato quando essa si è tutta concentrata ed esaurita nella lotta contro il divorzio, e poi in quella dell’aborto, e poi, sempre più polarizzandosi, in quella per la vita “dal concepimento alla morte naturale”; ciò comportava una riduzione del cristianesimo a una sorta di Autorità di garanzia della vita fisica (purché “innocente”) e un invilupparsi del movimento cristiano nei movimenti per la vita. Di conseguenza doveva venirne l’arretramento del suo progetto religioso in progetto culturale.

La ragione più spirituale è che nella riduzione della fede ad etica, cioè a casistica dei comportamenti ammissibili, si perde l’essenziale del messaggio di salvezza. La religione dei precetti c’era già, erano tanti, ed era il giudaismo. Se c’era da aggiungerne di nuovi, a ogni cambiamento di culture e di tecniche, non c’era bisogno che partorisse Maria. La novità del cristianesimo sta nell’aver portato l’etica, la norma dell’agire, dal dominio della verità al dominio dell’amore, dal regno dell’obbedienza al regno della libertà. Ogni volta la Chiesa fa fatica ad essere la Chiesa di quel messaggio lì: è più semplice affermare una verità, dichiararla oggettiva (intemporale universale e astorica) ed esigere comportamenti conseguenti.

L’ultima volta fu quando nella “Pacem in terris” Giovanni XXIII voleva dire agli uomini che se volevano la pace, dovevano farsi guidare (ducibus) dalla verità, dalla libertà, dalla giustizia e dall’amore. I censori gli obiettarono che non si poteva mettere sullo stesso piano la verità e la libertà, perché il magistero dei recenti pontefici aveva stabilito una gerarchia, era la verità che doveva decidere di tutto, la libertà era vigilata, doveva passare all’esame di chi deteneva la verità. Non parliamo poi dell’amore. Papa Giovanni lasciò quelle parole come stavano. La dignità dell’uomo stava nel poter cercare liberamente la verità, l’etica stava nel farsi discepoli dell’amore di Dio.

Raniero La Valle

Testamento biologico Amare la vita senza crociate



di Pax Christi

Amore per la vita, relazione di cura e dignità umana: si tratta di temi di grande rilievo etico in quanto vanno a incidere nella relazione con il medico, con i parenti e non solo, in quelle situazioni delicatissime in cui il paziente non è in grado di manifestare una sua propria volontà per una grave invalidità come quando egli versa in uno stato vegetativo. Inoltre si tratta di casi relativamente nuovi in quanto sono stati resi possibili dai recenti e positivi successi della medicina che hanno consentito di strappare alla morte sempre nuove tipologie di ammalati. E paradossalmente numerosi tra i casi in questione sono in parte provocati dai progressi della scienza medica e dagli sviluppi della tecnica.

L’importanza etica di tali temi, unita alla loro novità, ha determinato un clima di contrapposizione che non ha favorito la ricerca delle soluzioni più ragionevoli e maggiormente orientate al bene comune. Così come è probabile che anche l’approvazione definitiva da parte del Senato della Repubblica della legge sul fine vita in realtà sarà solo una prima tappa di un percorso che si annuncia controverso anche in considerazione del quadro costituzionale, giurisprudenziale e politico in cui si inserisce.

In questo contesto, ci sembra opportuno, come cristiani appartenenti a Pax Christi, di farci carico della condizione di incomprensione e di disagio determinatasi nella compagine ecclesiale e nella società civile a seguito delle modalità con cui si è giunti al voto in Parlamento. È importante che noi cristiani favoriamo un dibattito pubblico in cui sia ridotta la polemicità del confronto, siano mostrati i limiti di posizioni ideologiche (che potrebbero addirittura condurre alla diffusione di tesi dichiaratamente favorevoli all’eutanasia) e sia favorita la formazione di una convergenza di alto profilo attorno ai valori della persona, specialmente se malata, nella convinzione secondo cui «tutti gli uomini, credenti e non credenti, debbano contribuire alla retta edificazione di questo mondo, entro il quale si trovano a vivere insieme: il che non può avvenire senza un sincero e prudente dialogo» (Gaudium et spes, 21).

Anzitutto ci richiamiamo con forza all’imperativo che riassume tutti gli altri imperativi: l’amore che è dovuto al fratello specie quando è solo, debole, ammalato. Questo significa che la vita, la concreta vita di chi soffre, deve essere costantemente sostenuta, protetta, tutelata nella sua interezza. E la vita può essere criminosamente sottratta dall’eutanasia, ma può essere gravemente offesa anche nella situazione opposta dell’accanimento terapeutico in cui essa viene vanamente protratta attraverso – per usare le espressioni del Catechismo della Chiesa cattolica (n. 2278) – procedure mediche onerose, pericolose, straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi. E va anche ribadito (più di quanto lo si sia fatto finora) che la vita è altresì minacciata nelle ancora più frequenti ipotesi di abbandono terapeutico in cui, per ragioni ultimamente economiche, al paziente non vengono offerte la cura e l’assistenza richieste. E l’abbandono terapeutico è la vera emergenza bioetica nei Paesi più poveri del nostro (cioè per la grande maggioranza della popolazione mondiale). Chi oggi difende l’attuale legge, esibendo l’intenzione di difendere il valore della vita, deve porsi con coerenza il problema di garantirne sempre le condizioni in vari contesti: nella cooperazione internazionale, oggi sollecitata a ridurre il dramma della fame nel Corno d’Africa; nella politica estera, dove l’intervento militare si arroga il diritto di scegliere quali vite difendere a scapito di altre; nell’economia nazionale, dove la manovra finanziaria colpisce pesantemente la vita di moltissime famiglie anche nell’ambito della sanità.

Da parte dei cristiani va poi affermato con chiarezza che l’amore verso chi soffre comporta una speciale attenzione alla considerazione della sua dignità di cui è parte essenziale il rispetto della sua ragionevole volontà in ordine all’avvio e prosecuzione delle terapie anche qualora egli non sia competente o capace. L’autodeterminazione del paziente (se intesa come arbitraria disposizione di sé) e il paternalismo del medico (se inteso come unilaterale decisione della terapia più adeguata) sono entrambe posizioni che non rendono conto di ciò che deve caratterizzare la relazione di cura. Il paziente deve potere essere certo che, senza complesse formalità, sarà rispettato nella sua volontà ragionevole anche qualora non potesse più confermarla personalmente. Il medico deve potere, fin che è possibile, dialogare con il suo assistito e quindi con le persone che gli sono vicine per attuare le terapie che egli giudica più opportune con la massima serenità anche sotto il profilo giuridico. In questa prospettiva, l’“alleanza terapeutica” di paziente e medico non deve essere solo un obiettivo programmatico, ma una pratica da realizzare anche nelle situazioni in cui il paziente può apparire come un soggetto passivo rispetto ad interventi altrui.

Aspettando le elezioni nel Deserto dei Tartari


Ilvo Diamanti

ANCHE IERI si è ripetuto il logoro copione che si recita in Italia, da oltre un anno e forse più. Bersani ha invocato un governo di emergenza. Gli hanno fatto eco Fini e Casini, invocando nuove elezioni. Ma Berlusconi ha ribadito che non ha nessuna intenzione di dimettersi.

Né di anticipare il voto, senza la sfiducia del Parlamento. Anche se ormai la sua parabola è alla fine. O, forse, proprio per questo. Se uscisse di scena, a differenza del passato, stavolta difficilmente riuscirebbe a rientrare in gioco. Parallelamente, nel Pdl, pochi - oltre a Pisanu - sembrano disposti ad accantonare il proprio leader-padrone. A parte il fatto che nessuno ne avrebbe la forza, tutti si rendono conto che senza Berlusconi il Pdl resterebbe privo di identità e organizzazione. La stessa Lega vive con disagio crescente l'alleanza con Berlusconi. Soprattutto i militanti e la base, sempre più insofferenti. Ma Bossi e suoi fidi esitano a staccare la spina.

Il destino dei due leader è reciprocamente legato. Se Berlusconi cadesse, la posizione di Bossi verrebbe compromessa. Senza il Pdl e senza Berlusconi (per non dire senza Bossi), lontano dal governo: la stessa Lega, rischierebbe la marginalità politica e il declino elettorale. Come avvenne dopo la svolta secessionista del 1996. Una prospettiva insopportabile per un partito che ha da difendere (e da perdere) molti posti di governo - e di sottogoverno. Nella pubblica amministrazione e nella finanza. A livello nazionale e locale.

Così Berlusconi e il centrodestra "resistono" in Parlamento. Dove dispongono ancora di una maggioranza precaria. Sufficiente a garantire la "fiducia" quando è necessario. Mentre tra gli elettori oggi sono una minoranza, largamente "sfiduciata" dai cittadini.

Ciò rende il ricorso a elezioni anticipate assai improbabile. Anche se l'ipotesi echeggia, un giorno sì e l'altro pure. Ma le elezioni non le vuole nessuno. Anzitutto nella maggioranza. Figurarsi. Oggi, per il centrodestra, significherebbe perderle. Anche se Berlusconi dà il meglio di sé in campagna elettorale, quando è dato per spacciato. Ma stavolta è diverso. La sua stagione è finita. I valori e i modelli su cui ha fondato il proprio successo: logori e inattuali. La sua immagine non attrae più. Semmai avviene il contrario. La sua "base sociale" l'ha abbandonato. Gli imprenditori piccoli e grandi: ne chiedono le dimissioni da mesi. Ai loro congressi basta inveire contro il governo e il presidente del Consiglio per sollevare grandi boati di approvazione. La stessa Chiesa appare tiepida. Anche se le gerarchie mantengono un atteggiamento fin troppo prudente di fronte ai modelli e agli stili di vita proposti da chi guida il Paese.

Insomma, si tratta del momento peggiore per andare al voto, dal punto di vista di Berlusconi e del Pdl. Ma anche dal punto di vista della Lega, in evidente difficoltà nel recitare la parte dell'opposizione, dopo aver sostenuto fedelmente Berlusconi, da dieci anni in qua. Bossi lo ha detto esplicitamente a Pontida. È cambiato il "ciclo politico". A favore della Sinistra. E allora, perché votare? Tanto più che neppure a sinistra - nonostante il vento favorevole - si coglie molta voglia di andare al voto presto. Il Pd non si sente pronto. È diviso sulla questione delle alleanze. L'idea del Nuovo Ulivo, insieme all'Idv e a Sel, a Di Pietro e Vendola, dispiace a una parte del Pd, che preferirebbe la Grande Coalizione con il Terzo Polo. E teme di spingere l'Udc in braccio al centrodestra. A ragione, visto che le sorti della competizione elettorale diverrebbero altamente incerte.

Peraltro, la prospettiva del voto avvicinerebbe le primarie. Su cui nel Pd non c'è armonia di vedute. Quando e come farle? Primarie di partito o di coalizione? Oppure entrambe? Perché le primarie al gruppo del Pd piacciono quando l'esito è scontato. Non se sono davvero "aperte".

Infine, c'è la questione della "legge elettorale". Votare presto costringerebbe a utilizzare il famigerato Porcellum. Proprio mentre l'iniziativa referendaria, promossa da Parisi, volta ad abrogarlo e ristabilire il sistema elettorale precedente, ha ottenuto un massiccio sostegno popolare. Viaggia ben oltre le 500mila firme. Non a caso Alfano, a nome di Berlusconi, nei giorni scorsi, si è detto pronto a riformare l'attuale legge. Presumibilmente, per prendere tempo. E per evitare un nuovo referendum. Rischioso come il precedente, per il centrodestra. Mentre al Terzo Polo non piacciono né il Porcellum né il Mattarellum.

Mi rendo conto che questa ricostruzione, pedante e un po' prolissa, può apparire noiosa e scontata. Persino banale. Tuttavia, mi è parso utile proporla. Non solo a memoria futura - e presente. Ma perché dà il senso di quel che sta capitando nel nostro sistema politico. Mentre tutto intorno ci crolla addosso. Mentre le vicende politiche e i mercati globali richiederebbero - e, anzi richiedono - un governo che governi e un presidente del Consiglio credibile - o almeno non squalificato. Sostenuto da una maggioranza che sia tale non solo in Parlamento - e spesso neppure lì. Ma anche tra i cittadini e gli elettori.

In Italia, invece, viviamo un tempo di elezioni e dimissioni imminenti. Sempre possibili e da molte parti auspicate. Ma puntualmente scongiurate e rinviate. È come fossimo perennemente in crisi di governo. In campagna elettorale permanente. Quando non è possibile decidere nulla, perché è importante inseguire e conquistare ogni segmento di opinione pubblica. Ogni frammento del mercato elettorale. Un giorno dopo l'altro. Un momento dopo l'altro. Così tutto si agita, nel nostro piccolo mondo. Ma tutto resta uguale. Mentre fuori infuria la bufera (politica, monetaria, economica, finanziaria...).

Verrebbe da evocare la fortezza Bastiani, dove l'ufficiale Giovanni Drogo, insieme alla sua guarnigione, attende l'arrivo del nemico. Che non arriva mai. Nel Deserto dei Tartari narrato da Dino Buzzati. Ma si tratterebbe di una citazione troppo nobile, per il nostro povero Paese. Per il penoso spettacolo offerto dalla nostra scena politica. Che mi rammenta, piuttosto, un tapis roulant. Dove cammini e corri, con continui cambi di velocità e di pendenza. Ma resti sempre fermo. Nello stesso posto. Nella tua stanza. Senza una meta. Senza un orizzonte. Mentre il mondo fuori incombe.

La Repubblica (26 settembre 2011)